Superare l'abbandono: ecco cosa fare
Coppia e amore

Superare l'abbandono: ecco cosa fare

Quando veniamo lasciati, spesso cerchiamo le cause ma questa non è mai la soluzione al malessere: ecco come far passare il dolore dell'abbandono e rinascere

A tutti probabilmente è capitato di vivere un abbandono: in particolare, il momento in cui il nostro partner decide di lasciarci può essere un vero e proprio shock emotivo. Che sia un fulmine a ciel sereno o abbia avuto una lunga "preparazione" non cambia molto: l'abbandono è un fatto che ci ferisce e ci fa sentire per un attimo soli al mondo. Che cosa possiamo fare per vivere questa esperienza dolorosa in modo costruttivo, evitando che si trasformi in una sofferenza cronica?

Indice dell'articolo

Abbandono: i pensieri che fanno male

Quando arriva l'abbandono, ci sentiamo invasi da un vortice di sentimenti: tristezza, rabbia, gelosia creano un filtro che travolge tutto ciò che ci circonda. Le tipiche frasi di circostanza che a volte vengono dette ("Sento il bisogno di riflettere", "Non so più cosa voglio", "È meglio che ci separiamo per un po'") spesso hanno il potere di peggiorare le cose. Molti pensieri cominciano ad assillarci e rendono il tutto ancora più duro da tollerare: "Avrà un altro/a", "C'è qualcosa che non va in me", "Che cosa ho sbagliato?". Insomma, cerchiamo a tutti i costi di trovare una spiegazione razionale a ciò che è accaduto andando a indagare i perché, le cause di una scelta che ci fa stare così male. Questo è l'atteggiamento più comune e comprensibile, ma è anche il meno adatto per affrontare la situazione, perché non dà alcun sollievo e cronicizza il dolore.

Il pericolo è la cronicizzazione

La fine di un amore, se non affrontata nel modo giusto, può trasformarsi dunque da una situazione di passaggio (come naturalmente sarebbe) in una pericolosa stasi esistenziale, nella quale il passato ci immobilizza, condizionando pesantemente le nostre vite. Ogni separazione comporta una sofferenza e sarebbe impossibile accadesse il contrario: spesso poi, al dolore per ciò che non c'è più, si aggiungono rimpianti e recriminazioni, che acuiscono il senso di fallimento personale, causando a volte ansia e depressione. La separazione dunque richiede sempre un tempo di metabolizzazione, simile alla convalescenza dopo una malattia. Ma quando questo periodo si allunga a dismisura e finisce per diventare la nostra sola dimensione esistenziale, allora qualcosa non va: quella sofferenza non è più naturale, si è trasformata in un prodotto del nostro sguardo. Se l'amarezza diventa cronica o paralizzante, il problema è dunque mentale. Che fare in questi casi? Anziché logorarci per mesi andando a rovistare nel passato, dovremmo provare a pensare che gli eventi della vita, soprattutto quelli dolorosi, arrivano per farci cambiare rotta. Il dolore può essere visto come una condanna senza appello, oppure come uno strumento che aiuta a far nascere qualcosa di nuovo, diventando quindi parte di un processo naturale, funzionale all'evoluzione. Attraverso il dolore ci stacchiamo dal passato e possiamo contemplare altri interessi, passioni inedite, fino alla disponibilità a nuovi incontri.

Il senso profondo di ogni addio

Quasi sempre, del resto, una storia d'amore finisce quando non ha senso che continui, perché gli individui che la formano si erano "seduti", trasformando la liaison in una quotidianità monotona, un'abitudine, una routine. Il nostro amor proprio non lo ammette e ci fa soffrire, ma molto spesso si stava tenendo in vita qualcosa che doveva tramontare. La "bomba" che esplode, l'abbandono, ha dunque la funzione di scuoterci da una vita artificiale e anonima.
Ma come comportarsi, dato tutto questo? La parola d'ordine è stare nel presentee vedere che cosa accade. Se guardiamo bene le nostre emozioni, ci accorgeremo che, per esempio, quel corso di ballo seguito per anni con il partner non ci appassiona più, o forse non ci ha mai veramente appassionato. Lo facevamo per compiacere lei. O magari ci rendiamo conto che la furibonda gelosia che sentiamo adesso sta accendendo un eros che in realtà, durante la relazione, era totalmente spento. O che avevamo messo in ombra i nostri veri interessi che ora finalmente possiamo riscoprire.

La vera funzione del dolore

Se tutto questo è vero qual è senso di un dolore che comunque esiste? Quello di spazzare via dalla mente l’idea che ci siamo fatti della vita, del futuro, del destino, di cosa avrebbe dovuto accadere, non a far rimpiangere un partner e la grande storia d’amore con lui. Bisogna lasciare al dolore il suo spazio, non lo si deve giudicare né legarlo alla persona che pensiamo lo abbia causato. È il nostro dolore e basta. Bisogna dirsi queste semplici parole: “Vieni dolore, finché vorrai resta con me, io non faccio niente, sto qui e basta”. Quando si agisce così, si comprende una cosa fondamentale: nessuno sta male perché è accaduto qualcosa di esterno, ma perché resiste. Le cause esterne sono solo apparenze: stiamo male sempre e solo perché non stiamo realizzando tutte le nostre possibilità, non stiamo facendo emergere i nostri volti, ci stiamo spenti, magari dentro una relazione finita. E allora l’anima "chiama" il dolore, l’abbandono: perché il dolore ci spoglia di tutto, ci lascia nudi, senza le nostre convinzioni, le nostre identità, le nostre rigidità. Solo in questa condizione possiamo rinascere. Purché non resistiamo e non ricopriamo il dolore di altre finzioni, come “prenderla sul ridere”. Impariamo a “essere qui” col dolore: è lui la vera medicina, altro non serve.

Nessuna ferita è fatta per durare

A proposito di abbandono, Federica, una lettrice di Riza Psicosomatica, ci scrive:

“Lui mi ha lasciata tre mesi fa ma io sto male come se fosse accaduto ieri... Come è possibile? Forse stavolta la ferita è davvero molto profonda, non credevo di poter soffrire così, mi sento frastornata, continuo a chiedermi: perché, perché, perché? Le amiche hanno paura che vada in depressione e mi spronano ad uscire con loro. Ma io mi sto sempre più allontanando da tutto e tutti, ho bisogno di fare il vuoto, meditare un po’ su di me, ritrovarmi. Come faccio a superare questo dolore?"

Nella sua mail Federica parla di una ferita profonda che non si rimargina. In realtà non ci sono ferite più profonde o meno, è un’invenzione della mente. Qualsiasi cosa sia accaduta il dolore non dura mai troppo a lungo. Dura quanto deve durare. Se si prolunga dipende solo dal nostro atteggiamento mentale: non abbiamo accettato che le cose siano andate così, non siamo stati disponibili a cedere all'abbandono, a farci travolgere dal dolore. Spesso addirittura, ci rifiutiamo di ammettere che era inevitabile: cancelliamo il ricordo di tutte le cose che non funzionavano nel rapporto e costruiamo un altare. In questi casi facciamo del dolore una ragione di vita.

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Osservarsi e cedere per rinascere

Esistono due tipi di dolore: quello di chi, quando tutto “crolla”, si sente annientato, finito e si accascia; questo è il dolore buono, sano, che ha in sé una sorta di “salvezza”. E non dura mai. Il dolore "cattivo" è invece tipico di chi non accetta ciò che è successo, ci pensa e ci ripensa, continua a lamentarsi, cerca di capire, trasforma il dolore in un abito mentale e così lo fa durare anche per anni. Federica fa bene, detto tutto questo, a non ascoltare le amiche. Quando il dolore arriva è meglio, per un po’, permettergli di prendere posto nella nostra coscienza, di occuparla totalmente. Solo così può compiere il suo lavoro di purificazione rinnovandoci completamente e diventando una buona occasione di rinascita. Il vuoto aiuta a ritrovare equilibrio. Attenzione: non serve rimuginare sugli errori passati, sui rimpianti e sui rimorsi. Occuparsi di sé significa niente più che osservarsi. Vivi, fai le cose di tutti i giorni, senti le emozioni, e intanto osservati, senza dare giudizi. Occorre diventare testimoni di se stessi nei piccoli gesti: quando si mangia, si lavora, si cammina. Non esistono azioni stupide o banali, ma solo comportamenti utili a superare il dolore e altri che lo rendono insuperabile, come i giudizi e la ricerca delle cause.

Le pause di riflessione sono un'illusione

Caterina, un'altra nostra lettrice, racconta un fatto paradossale: dopo una convivenza di quasi dieci anni, decide di allontanarsi dal compagno, al termine di un lungo periodo di liti e insoddisfazioni reciproche, per prendersi la classica "pausa di riflessione". Sperava che, in tal modo, avrebbe dato la scossa a una relazione che sentiva ormai spenta. Come può accadere in questi frangenti, succede invece che Caterina incontri un altro uomo che le piace molto: si sente finalmente attratta da qualcuno, di nuovo viva e vitale. Che fare? Combattuta tra la paura di innamorarsi di un altro e quella di perdere definitivamente il compagno "storico", non sa più che fare e si tormenta nel dubbio. Che cosa fare? In superficie, i suoi tormenti sembrano legittimi, ma nel profondo non è così. Quando incontriamo qualcuno che ci colpisce, significa che la nostra anima è pronta a evolvere, a rimettersi in gioco dopo un lungo periodo di stasi. Le domande che si fa Caterina sono tutte legate al passato, e quindi sono zavorre. Al contrario, le sensazioni la ancorano al presente. La risposta giusta è nella spontaneità di quel che prova, non nei pensieri e meno che mai nelle domande: solo agendo come sente, senza farsi frenare dai ragionamenti, Caterina potrà comprendere quali desideri alberghino davvero nel profondo della sua anima.

La paura di non innamorarsi più

Anche Gianfranco ha lo sguardo fisso su quello che è stato e così non riesce a vedere quello che potrebbe arrivare. Alla soglia dei 60 anni si è separato dalla moglie. Pur avendo un buon rapporto con i figli e un lavoro che lo gratifica, non è felice: si chiede se sarà ancora capace di innamorarsi, dopo tutto il tempo trascorso. Ma è proprio così? No: l’amore che si prova a vent’anni, straripante di energia e quindi molto fisico è differente da quello dei cinquanta o sessant’anni, ma non è necessariamente migliore. L'amore della maturità vive di profondità più che di ideali (tipici della giovane età), di autonomia più che di dipendenza reciproca. Quel che si perde in ardore, si guadagna in consapevolezza. Al contrario, credere che il sentimento non possa più arrivare è solo una forma di difesa che la mente adotta per tenere lontana ogni possibile sofferenza dal cuore. Così facendo, ci si chiude anche alla possibilità di gioire di nuovo. Allontanarsi dai luoghi comuni, ripartire da noi stessi e dai nostri interessi, cercare nuovi stimoli: ecco le strade maestre per rendersi conto che abbiamo ancora molto da offrire e da ricevere dalla vita, amore compreso.

Le cose da evitare

Ricercare le cause dell'abbandonoCronicizza la sofferenza. Ti ha lasciato: questo conta, non le cause, le colpe dell'uno o dell'altro, i giudizi su di te o su di lui
No ai sensi di colpa

Non domandarti: "Dove ho sbagliato?". Quando si è in coppia e la relazione finisce non è mai responsabilità esclusiva di uno dei due partner. Inconsapevolmente vogliono entrambi che il rapporto s'interrompa.

Provare a rimediare

È controproducente cercare di mettere una pezza a quanto accaduto in passato, a nostri presunti errori: non è risolutivo e non permette di attivare nuove risorse.

Far finta di nulla, indossare una mascheraLe finzioni danneggiano il cervello. La sola domanda che deve farsi chiunque provi una forte sofferenza d’amore è questa: “Io adesso sono qui? Sono davvero qui?”. Se sei qui, con il dolore che provi, cessano di avere senso frasi come “cosa è accaduto”, “cosa accadrà”, “cosa potrebbe accadere”, “come sarebbero andate le cose”: sei semplicemente qui. Quando siamo davvero dove siamo, concentrati sul presente e sul dolore, la mente attiva poteri che altrimenti non può avere. E ci cura.

Le cose da fare

Cedere a quel che si provaPercepisci la rabbia, la tristezza o la gelosia quando arrivano, ma solo quando arrivano, senza sforzarti di mandarle vie: solo così si formeranno dentro di te nuove energie, utili a riemergere.
Rimanere nel presente

Osserva che cosa accade, dentro di te e nell'ambiente circostante. In questo modo scoprirai che, mentre si chiude una porta, si aprono nuove possibilità, per esempio si fa avanti un incarico lavorativo che aspettavi da tempo o arriva una telefonata inaspettata che ti apre nuovi orizzonti, interessi o modi di essere.

Dedicarsi a un'attività manuale

Come i bambini quando modellano la creta, i muratori coi mattoni, le donne di una volta con il ricamo: quando siamo immersi in un lavoro manuale, anche il più modesto, il cervello esce dal labirinto dei rimpianti, mette in moto energie rigeneratrici e si rinnova. L’anima non è fatta per autodistruggersi pensando e ripensando, ma per realizzare cose. Occorre ricordalo sempre invece di perdere tempo a rimuginare sulla vita e sugli amori finiti: le risposte arrivano da sole quanto più siamo concentrati nelle imprese concrete.

andrea nervetti
Psicologo e psicoterapeuta, collabora dal 2001 con l’Istituto Riza di Medicina psicosomatica di Milano dove esercita la libera professione. Vice Direttore e Docente presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia a indirizzo psicosomatico dell’Istituto Riza. Membro del Consiglio direttivo della SIMP (Società italiana di medicina psicosomatica), scrive per le riviste Riza Psicosomatica, Antiage ed è responsabile del sito www.riza.it. Svolge anche attività libero professionale presso l'Istituto stesso e a distanza via internet. La scheda completa dell'autore
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