Sindrome di Penelope: l’attesa di ciò che non può tornare
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Sindrome di Penelope: l’attesa di ciò che non può tornare

Vivere nel ricordo della vita passata con una persona che non c’è più può favorire crisi depressive: se accogliamo il dolore come un lavacro, ci depurerà e torneremo a stare bene

La fine di una relazione, a causa di una separazione o di un lutto, può trasformarsi per alcune persone in una pericolosa paralisi nella quale i ricordi del passato immobilizzano, condizionando pesantemente la vita. Si tratta di un disagio psicologico che prende il nome di "Sindrome di Penelope": in questo articolo spieghiamo di cosa si tratta e come uscirne.

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Sindrome di Penelope: cos'è

Il sentimento di solitudine e la malinconia colpiscono soprattutto donne anziane rimaste vedove. Per loro è stata descritta anni fa una forma di disagio psicologico chiamata "Sindrome di Penelope", con riferimento alla moglie di Ulisse, antico Re di Itaca, che rimase vent'anni lontano da casa a causa della guerra di Troia. Nell'Odissea, il poema che ne descrive il mito, Laerte, suocero di Penelope, dando ormai per morto il figlio, le suggerisce di sposarsi con un altro uomo. La regina inizialmente rifiuta, per poi accettare a una sola condizione: si sarebbe risposata solo dopo aver finito di tessere la tela dell'abito nuziale.

Così durante il giorno e sotto gli occhi di tutti tesseva la tela, mentre la notte, segretamente, la disfaceva. Proprio quest'atto è alla base della scelta dei ricercatori (la sindrome è stata descritta per la prima volta in un Congresso all'Università di Messina nel 2011) di dare a questo disagio il nome "sindrome di Penelope". Nel gesto del disfare la tela, Penelope esprime la sua contrarietà ad accettare l'idea della scomparsa del compagno, esattamente quel che avviene nelle donne che soffrono della sindrome.

Sindrome di Penelope: i sintomi

I sintomi tipici di questo malessere sono caratteristici di chi è stato abbandonato e vive costantemente sospeso tra passato e presente: apatia, assenza di stimoli, pervicace senso di solitudine. Chi ne soffre esce raramente di casa e tende a incontrare poche persone. Questa situazione di stasi si ripercuote sul piano psichico e su quello fisico; per queste persone il rischio di incappare in una vera e propria crisi depressiva è molto probabile, così come quello di soffrire di ipertensione, insonnia, inappetenza e perdita di peso. La sindrome di Penelope è caratterizzata dalla continua, angosciosa e arrendevole sensazione di dover attendere che qualcosa accada, come se la persona che non c’è più potesse tornare a colmare il vuoto lasciato, alternata a fasi di dolorosa consapevolezza che ormai nulla di tutto ciò potrà accadere.

Liberati così del passato che non passa

La perdita di una persona cara è uno degli eventi critici della vita e, specie se si è anziani, può far cadere facilmente in crisi. Del resto, ogni separazione comporta una sofferenza, cui spesso si aggiungono rimpianti e recriminazioni che acuiscono il sentimento d’impotenza e frustrazione. Per questo in ogni cultura umana esiste il lutto: serve a farci transitare dal vecchio al nuovo, in un percorso di morte e rinascita, analogico a quanto succede con i cicli stagionali. Ogni separazione, del resto, richiede una metabolizzazione e la sindrome di Penelope è proprio la resistenza a che si compia questo processo, per altro inevitabile. Il dolore della perdita va invece vissuto pienamente e per il tempo necessario, senza fuggirlo ma evitando anche di "cascarci dentro" crogiolandosi nella sofferenza: quando il dolore diventa la nostra unica dimensione esistenziale, è giusto preoccuparsi e chiedere aiuto.

Il dolore che si prova in queste occasioni è parte di un ordine cosmico, arriva per depurarci, per allontanarci dagli attaccamenti e farci ripartire come nuovi. Arrendersi al dolore, alla tristezza è dunque la precondizione per rendere possibile, un giorno, il riemergere della gioia di vivere. Il celebre psichiatra e psicoterapeuta Carl Rogers raccontava che i suoi genitori conservavano abitualmente le patate per l’inverno in cantina e queste, nonostante le condizioni climatiche di freddo e buio, fiorivano. Dopo anni di lavoro come psicoterapeuta, Rogers concluse che un meccanismo simile accade anche al nostro cervello. Quando siamo profondamente addolorati, feriti, quando la vita sembra metterci a dura prova, scatta una “forza fiorile”, un’energia riparatrice, misteriosa e "magica" che si prende cura di noi, proprio come accade al corpo quando ci tagliamo e le piastrine accorrono per riparare la ferita. Solo attraversando il dolore, possiamo davvero rinascere.

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