Malato immaginario: bisogna credergli?
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Malato immaginario: bisogna credergli?

Lo è chi finge una malattia fisica o un trauma psicologico per ricevere attenzione e compassione dagli altri: perché è un comportamento a rischio

Chi non hai mai conosciuto qualcuno che si lamenta sempre di star male? Ogni giorno dice di soffrire per un’imprecisata malattia fisiologica oppure per un trauma del passato descritto come l’origine delle sue “sventure”. Il malato immaginario in questione perpetua questo comportamento con lo scopo di attirare verso di sé l’attenzione e l’affetto degli altri, come se fosse l’unica via per ottenerli. Dietro questo atteggiamento si nasconde un grosso problema di autostima: vediamo di cosa si tratta nel dettaglio e come bisogna comportarsi con lui (o con lei).

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L’identikit del malato immaginario

Del malato immaginario ne parlò già secoli fa il drammaturgo francese Molière nella sua commedia “Le Malade imaginaire”, 1673, dove il protagonista trascorre il suo tempo a cercare malattie inesistenti. Finzione a parte, la sindrome di Münchhausen, (così viene chiamata scientificamente questa patologia), deve il suo nome a un personaggio realmente esistito, l’omonimo barone vissuto in Germania nel XIX secolo, noto per i suoi racconti molto fantasiosi e avvincenti. Si tratta di un disturbo, nei casi più gravi di tipo psichiatrico, per cui chi ne è affetto simula una malattia fisica o un trauma psicologico per avere la compassione, la considerazione e la simpatia degli altri. Nota come “sindrome da dipendenza dell’ospedale”, non sempre è riconosciuta dai medici, anzi di solito viene “smascherata” solo dopo avere escluso una lunga serie di ipotesi diagnostiche. La persona con la sua recita non cerca però di sfuggire agli impegni lavorativi o di non presentarsi agli appuntamenti, ma soddisfa il bisogno psicologico di "essere il malato", atteggiamento che alla lunga può costargli caro.

Non è ipocondria

Il fatto di sentirsi sempre debole e cagionevole spiega perché questa condizione venga spesso confusa con l'ipocondria. Se nella sindrome di Münchhausen, la persona si finge malata per raggiungere un obiettivo preciso, farsi notare ed essere amato, l'ipocondriaco è ossessionato realmente dalla malattia e ogni minimo e trascurabile sintomo può essere la spia di una patologia preoccupante. Non a caso, l'ipocondriaco non è affatto interessato a catturare morbosamente l’attenzione del mondo circostante.

Malato immaginario: cosa rischia?

Alla base di questo disturbo c’è una bassissima autostima: la persona non ha fiducia in se stessa e crede che essere malata sia la sola strada per far sì che gli altri si avvicinino a lei, prestandole l’attenzione che desidera, avendone più diritto di una sana. Questo comportamento è un alibi che il finto-malato utilizza per evitare di entrare in contatto con le sue parti profonde, con quella disistima che lo fa sentire inutile, mai all’altezza della vita e bisognoso dell’abbraccio della “mamma” per andare avanti. Meno affronta il disagio più questo diventa debilitante. È una “furbizia da boomerang” che oggi può dare vantaggi, ma domani farà solo danni, intaccando quel poco di autostima che possiede, anche perché chi gli sta accanto lo fa per senso del dovere, non per piacere.

Cosa fare con un finto-malato

Se si ha a che fare con un malato immaginario la prima cosa da fare è non badare troppo ai lamenti e sdrammatizzare, virare la conversazione verso altri argomenti, specialmente se diventa insistente. È un attimo finire preda del suo giochetto “manipolatorio”: più lo si asseconda, dedicandogli cure e attenzioni, più il finto-malato si approfitterà delle nostre buone intenzioni, rendendoci prigionieri delle sue infinite richieste. Questo distacco è utile non solo a liberarci dalla sua “gabbia” di suppliche, ma anche a fargli capire che reiterando tutte queste esagerazioni, sta perdendo ogni credibilità. Anche perché, quando starà male veramente, chi andrà in suo soccorso?

Se sei tu il malato immaginario

Indossare la maschera del malato col tempo ci allontana dal nostro centro e quindi la nostra anima, come fosse smarrita, non può che ribellarsi a un atteggiamento tanto innaturale. Quindi se ti accorgi di metterlo in campo, puoi fare una cosa: prendere atto che stai recitando e attivare un nuovo sguardo,  puro, che non vada alla ricerca delle cause (“faccio così perché…”), ma si posi sulle emozioni, nel caso specifico la disistima, senza provare a mandarle via. Non è mai l’esterno a favorire il malessere, ma la dimenticanza dell’essere che siamo, della nostra autenticità. Qualsiasi cosa accada, quando stiamo male dobbiamo cedere e aspettare senza chiederci nulla, come l’uovo che attende di schiudersi. I disagi, le ansie e i traumi della vita sono volti paradossali di quell’energia creativa che partorisce la nostra vera identità, che fa in modo che il pulcino esca dal guscio e diventi quel che è destinato a diventare.

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