Alla base c’è un’insicurezza che riguarda i rapporti con gli altri in generale: la strada per uscirne non è invocare più forza, ma valorizzare ciò che si ha, timidezza compresa
Francesco scrive alla redazione di Riza psicosomatica: “Perché ho sempre il terrore che gli altri parlino male di me? Quando siamo nel gruppo di amici mi basta stare al centro dell’attenzione per un attimo per diventare paonazzo. Non parliamo degli “a tu per tu”: cerco sempre un terzo, una sponda perché altrimenti non so cosa dire e sto male. Ho sempre paura di quello che gli altri pensano e se vedo due amici che si dicono qualcosa, immagino che stiano parlando di me, che ridano alle mie spalle. Cosa posso fare per sentirmi meno vulnerabile e parlare in pubblico senza tutti questi problemi?”. Le librerie sono piene di manuali che insegnano a rinforzare il carattere e a superare gli stati d’ansia, rivolti a persone che si giudicano “troppo timide”. Tutti condividono un presupposto: occorre rinforzarsi perché la fragilità, la timidezza, la paura degli altri sono “errori”, sono difetti del carattere. La sofferenza dipenderebbe insomma da una tara originaria della persona, che i vari consigli psicologici portano a correggere.
Sembra logico, vero? Eppure le cose stanno proprio al contrario. La sofferenza legata alla cosiddetta “fobia sociale” (la difficoltà ad avere normali relazioni di scambio con gli altri) non dipende dalla timidezza o dal carattere, ma dal giudizio negativo che la persona dà della propria timidezza e del proprio carattere. Ognuno è quello che è, perché dovrebbe soffrirne? Soffre la pecora per essere pecora, l’aquila per esser aquila, il calabrone per essere calabrone? Soffrirebbero se non fossero quello che sono! Se la pecora non è una buona pecora ma si mette in testa di essere un lupo, allora sì che sono guai! Passa la vita a dirsi: “Devo ululare ma non ci riesco, devo digrignare i denti ma sbaglio a farlo ogni volta, oddio perché sbaglio? Perché gli altri lupi sono così bravi? Devo sforzarmi, così non vado bene!”.
Sono il giudizio che dai di te stesso e il tentativo di somigliare a ciò che non sei a farti soffrire, a provocare la tensione, l’ansia, lo stress e infine il senso di fallimento e la disistima. La prova è che tutti i timidi, tutti, conoscono almeno una persona con cui stanno benissimo. Può essere un amico, un conoscente che vedono ogni tanto, un professore di scuola: quando stanno col lui magicamente tutti i sintomi scompaiono, conversano tranquillamente, scherzano, esprimono le proprie convinzioni senza problemi. Per motivi misteriosi da quella persona non si sentono giudicate e tutto il meccanismo non scatta. Segno che il giudice interiore e quello esterno sono due facce dello stesso processo. E del resto è semplice da capire: come può darti più forza una psicologia che parte dal presupposto che sei sbagliato in partenza? Quell’idea è la causa, non può essere la soluzione! È quell’idea a essere malata, non tu.
Come se ne esce? Servono due mosse. La prima è smorzare il giudice interiore. Si può fare dicendosi, per una volta, parole diverse da quelle che ci ronzano in testa di solito, ad esempio non “devo essere più interessante”, ma “ho già tutto ciò che mi serve per essere felice”. La seconda mossa è altrettanto semplice: invece di pensare continuamente a ciò che non riesci a fare, porta l’attenzione su ciò che riesci a fare e che ti piace. Attività, passioni, interessi che ti accendono ogni volta: dai loro più spazio, più tempo, più importanza nella tua vita. Faranno da apripista e ti porteranno nuove occasioni e, stanne certo, nuove amicizie e nuovi rapporti in cui potrai essere quello che sei, semplicemente, senza pensare continuamente a chi dovresti essere.